APPUNTI CONFUSI SU UN SERMONE EVANGELICO E SUL MIO CORPO

Laura Berrie Amponsah
5 min readOct 29, 2019

--

Chiamarmi straniero mi pesa. Comporta che io non abbia ancora trovato il mio posto, un luogo da chiamare casa, a cui tornare con la consapevolezza di ritrovare le stesse persone, familiari che non torneranno nel paese di appartenenza, in un posto ultimo che conoscono, ma che nella realtà io conosco poco. Conosco tanto, troppo, di questa realtà: queste città dove ora mi sento a casa; tra le pareti delle vie e il ruvido dell’intonaco in cui vi è il respiro smaterializzarsi nella brezza invernale. Mi tende, la città, il suo corpo e la vivo d’istinto, mai sorpreso, ad ogni tiro di sigaretta, il fumo che ne deriva: eccolo, il mio marchio; come fosse mia e che mai la dovessi lasciare, o che non ci fosse un prima, un altrove.
Chi lo avrebbe mai detto?

"Il diavolo si insedia laddove l’identità traballa". Così esordisce il pastore al culto evangelico a cui mi sono lasciato trascinare un paio di settimane fa e in cui tutto d’un tratto mi sono ritrovato a tradurre dall’inglese all’italiano parole in cui ormai credo poco.

Il disagio della carne che ti riveste si estende al mondo che ti circonda nell’istante in cui ti rendi conto di essere fuori posto e ti ostini a rafforzare le tue certezze pur di marcare i confini da non oltrepassare, quando è già tardi, quei confini sono già stati oltrepassati e nella realtà sei cambiato senza che te ne rendessi conto, o, almeno, così fu per me quando appena prima degli otto anni mi rifiutavo a chiamare casa questo paese, deciso ad aggrapparmi al mio essere straniero poiché la realtà a me circostante era indecifrabile.

"Il diavolo si instaura laddove l’identità traballa". Mi sento il suo sguardo addosso, come a indicarmi esempio di identità traballante e a chiedersi con che audacia mi sia presentato con le unghie smaltate di nero, la matita sotto gli occhi e il look trasandato, pare volermi salvare. Leggo nei suoi occhi la fame rapace dei cristiani evangelici di dover estendere la propria salvezza a chiunque non si uniformi alla loro realtà ed io non ho bisogno di essere salvato. Io mi presento così proprio perché sono salvo dalla paura di essere me stesso. Paura che temo possa tornare. Ho angoscia delle chiese, questa paura in gran parte me lo hanno instillato loro, vorrei scappare, ma devo restare a tradurre "il diavolo si instaura laddove l’identità traballa".

La cosa buffa è che i miei ricordi principali partono proprio dai miei otto anni. I ricordi del periodo in africa che precede i miei otto anni sono frammentari: istanti di cui mi ricordo a malapena un colore o una parola, eppure talmente importanti da aver condizionato gli anni successivi. Proprio da dove ormai ero diventato io quella realtà indecifrabile, "il diavolo si insedia laddove l’identità traballa".

L’amore per questo paese è nato dal dolore di sentirmi fuori posto, dalla consapevolezza che non ci sarebbe mai stato per me azione che mi avrebbe reso invisibile, perché spesso non si vuole altro che passare inosservati e attirare di meno gli anziani che per dimostrare a se stessi di non essere razzisti si spingono al dialogo, ti toccano i capelli senza che tu abbia espresso consenso. Comunque, non che fosse necessariamente una cosa negativa, "questo è il mio corpo", mi sacrificavo in nome di un bene maggiore con questo corpo talmente spartito dalle identità, un corpo talmente sommerso dagli ideali della gioventù da non riuscire a comprendere che non esiste identità che non muti ovunque si viva e che il dolore è quello comune della gioventù, che è fiamma: divampa e restituisce al mondo ciò che rimane.

Con gli anni, l’intrusione degli anziani si sarebbe evoluto in amanti che pur di non mostrarsi razzisti si convincono di cercare proprio te, ti feticizzano per un poco di esotico.
Il tuo corpo non è mai stato veramente tuo. Questa è forse una delle poche verità che contano: il corpo nero, la pelle grassa e i capelli crespi non ti sono mai appartenuti, il loro valore risiede nelle parole e nelle azioni quotidiane degli altri, dalla loro approvazione, da quanto sei disposto a piegarti pur di non sentirti escluso, pur di mostrarti integrato, non straniero o immigrato, come con il pastore ora: si tratta di istinto di sopravvivenza e per sopravvivere è bene camuffarsi, "il diavolo si instaura laddove l’identità traballa" quindi è bene negare che in fondo non sei tanto diverso dal clandestino, così accetti e insisti sull’identità della terra che hai vissuto

Ogni migrazione si porta dietro almeno un poco di dolore della memoria e a poco importa che si abbiano in gran parte ricordi positivi, a non essere dovuti scappare da qualcuno o da qualcosa, ma trapiantato per conseguenza delle altrui scelte, perché si è famiglia, si deve essere famiglia, uniti nell’aspirare il meglio.Questa famiglia che ti annulla per il bene del gruppo, che mette la tua individualità al secondo posto per il bene di tutti, e spesso sfugge il senso della nuova dialettica che si instaura, dei muri che si erigono pur proteggere il poco della propria identità, per sopravvivere all’adolescenza, considerarsi estranei all’omologazione dettato dal sangue. Fregandosi di mettere in pericolo l’equilibrio e la stabilità di tutti. Questo sentimento di estraneità che ti costruisci diventa nocivo per il gruppo. Diventi quindi cattivo, poiché straniero è male. Che tutto parta da qui?

Che straniero è male lo impari con gli anni, lo leggi negli occhi degli altri, perfino dal conforto che trapela dai loro occhi quando ammetti di essere straniero, ti costruisci l’immagine del diverso e si rincuorano che forse in fondo come loro, alla fine, non sarai mai... e come no? Tu "arricchisci la cultura", "porti nuovi punti di vista", perché privarne al mondo? Però è in questa distanza che si cela lo squilibrio dell’identità, il marchio d’apostata delle patrie senza fissa dimora, di bilingue madrelingua di nessuna, di invasore e clandestino, diavolo che si instaura laddove l’identità traballa, quindi ovunque, giacché l’identità è tale poiché in continuo mutamento.
Questo in qualche modo mi infastidiva, l’idea di dovermi meritare qualcosa che mi è capitato, il diritto di usare il "noi" parlando di argomenti inerenti a una nazione, senza che ciò fosse percepito come rinnegare l’altra.
Che fosse questo il punto del pastore? Che intendesse questo quando aggiunse che trovando la nostra identità in cristo avremmo avuto gli strumenti per sfidare il diavolo? Che la liberazione si ottenga con la sola fede? E se tale era, la mia quale è?
In una realtà alternativa in cui la fede era capace di soddisfarmi avrei accettato ciò come risposta e quel sermone non mi avrebbe lasciato il vuoto che invece mi lasciò.

Guardo negli occhi dei miei genitori e trovo la tranquillità della certezza, l’assoluta consapevolezza della loro appartenenza. Che sia un fattore generazionale? Che noi giovani essendo cresciuti in una realtà così aperta non dobbiamo più porci l’angoscia della patria? Quale privilegio ci permette di definirci cittadini del mondo, ma allo stesso tempo temere e non fidarci dell’altro poiché così indecifrabile? Cosa mi fa accettare così facilmente l’assimilazione e il far mio l’essere italiano, ma tremare all’idea di essere associato allo straniero? È forse perché ho fatto mio anche la paura di questa nazione? Oppure ancora nel profondo ho bisogno di marcare la mia diversità, di dissociarmi da questa realtà per ricongiungermi con le mie origini in modo da dimostrare a me stesso che sono speciale, quando in realtà siamo tutti stranieri poiché veniamo scomposti ogni giorno e ci ricomponiamo l’indomani a seconda di ciò che abbiamo assimilato col tempo?

--

--

Laura Berrie Amponsah

28anni, immigrata da 20, studio comunicazione, scrivo del mio corpo in rivolta, vegana, cerco di distinguere la poesia dalla miseria un giorno per volta